Il bel Paradiso non è fatto per i poltroni: lavoriamo dunque! É disdicevole, per gente che professa una regola austera, la troppa sollecitudine per non patire, essendo il patire tutto proprio di chi ama il Signore. Se il Sommo Pontefice ci mandasse da Roma un pezzetto della Santa Croce, la riceveremmo con gran riverenza e devozione, e lo ringrazieremmo di un tanto onore e favore. Gesù Cristo, Sommo Pontefice, ci ha mandato dal cielo parte di sua croce, che sono i mali che soffriamno; portiamola per suo amore e sopportiamola con pazienza e lo ringrazi di un tanto favore.
(S. Ignazio da Santhià)
Nella liturgia viene ricordato il 22 settembre
"APOSTOLO DEL PIEMONTE"
La natia Santhià, desiderando avere il suo cittadino, lo elesse canonico rettore della insigne collegiata di Santhià. A loro volta gli Avogadro lo elessero parroco della pievania di Casanova Elso di cui godevano il giuspatronato. Ma don Belvisotti tanto conteso, senza prendere possesso né dell'uno, né dell'altro dei due benefici, un bel giorno fuggì a Torino ottenendo dal ministro provinciale dei cappuccini di essere ammesso tra di loro come novizio.
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"Ma perché rompere sì bella carriera così feconda di frutti spirituali?". Fu l'obiezione del padre provinciale. "Padre, sopra questi trionfi il mio cuore non riposa. Sento in fondo all'anima una voce che mi ripete: Se vuoi trovare pace devi fare la volontà di Dio attraverso l'obbedienza". Così don Belvisotti divenne fra Ignazio da Santhià nel noviziato di Chieri il 24 maggio 1716. La sua fermezza nel tendere alla perfezione, l'osservanza piena, premurosa, spontanea e gioiosa della vita cappuccina, gli attirarono l'ammirazione anche dai piú anziani religiosi del noviziato.
Dopo il noviziato a Chieri (1716-1717) e dopo il professorio di Saluzzo (1717-21), Ignazio fu richiamato tra i giovani novizi di Chieri, poi nel 1727 al Monte di Torino per un breve corso di complemento teologico, come prefetto di sacrestia e confessore dei secolari. Nel capitolo provinciale del 31 agosto 1731 fu eletto vicario e maestro di noviziato a Mondovì. In quattordici anni di magistero il beato firmò la professione di 121 novizi, alcuni dei quali, distintisi nella virtú, moriranno in fama di santità. Commoventi le testimonianze di questi religiosi circa la virtù del loro maestro. P. Ignazio sapeva infondere nei giovani la passione per l'osservanza della regola e delle costituzioni; il suo genio brillava nel ricondurre la varietà delle pratiche all'unità del loro principio generatore: l'amore.
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Certo anche l'amore ha il suo rigore: il maestro era irremovibile sul principio dell'abneget semetipsum; ma qui appunto brillava il suo talento pedagogico. Egli sapeva entusiasmare i giovani alla virtù, al sacrificio, né voleva imporre un atto di rigore che non fosse entrato prima nel "gioco dell'amore ", come usava esprimersi. La somma discrezione e la tenerezza definita "materna" gli accaparrarono somma venerazione e irresistibile penetrazione educativa nello spirito dei suoi giovani. Ad un novizio, divenuto missionario nel Congo, ossia Bernardino da Vezza, e impedito per una grave oftalmia di continuare nell'attività apostolica, fece dono dei propri occhi addossandosi la malattia del discepolo con un atto eroico. Il missionario guarì, ma il povero maestro fu colpito così violentemente dal male da vedersi costretto a lasciare l'ufficio "con sommo rincrescimento di tutta la famiglia religiosa". Il beato non si pentì mai di questa offerta, né si meravigliò di quella malattia: la croce doveva ben portarla qualcuno! Esonerato dall'ufficio di maestro di noviziato, P. Ignazio non si credette un soggetto da pensione, e continuò al Monte di Torino la sua efficace opera di insegnamento ai religiosi.
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Ufficialmente Ignazio non fu predicatore ma, quando l'obbedienza lo incaricò di tenere ogni domenica il catechismo ai fratelli laici e poi di predicare gli esercizi spirituali alla famiglia religiosa del Monte, non esitò ad accettare; il successo fu tale che ai suoi catechismi intervenivano anche i superiori, i professori di teologia e i predicatori con grande entusiasmo. Dei due corsi di esercizi spirituali annuali, uno era sempre riservato a lui ed era il più frequentato; anzi volevano intervenire anche i religiosi assegnati all'altro corso "allettati dallo spirito che parlava in lui". "Parlava a tutti con libertà evangelica e senza adulazione, accoppiando rispetto e verità nel riguardo dei superiori, da lui considerati come maestri". Le sue osservazioni praticissime sapevano arrivare così a proposito che "curavano le piaghe senza inasprirle, anzi con aggradimento e profitto di tutti". A chi gli osservò un giorno che le sue parole circa i doveri dei superiori cantavano un po' troppo chiaro, P. Ignazio rispose con dignità e sicurezza: "Io parlo di tutti e di nessuno; quanto dico, lo leggo sul Crocifisso". Le sue parole non erano che brevi scintille del grande incendio che gli divampava nell'anima e lo moveva a fare assai più di quanto proponeva ai confratelli; sicché tutti sentivano in lui uno di quei "grandi nel regno dei cieli, che prima fanno e poi insegnano".
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Così per più di vent'anni consecutivi egli fu al Monte come "la lampada sul candelabro", luce di dottrina e fiamma di carità. La sua predicazione domestica non cessò che due anni prima della sua morte, a ottantadue anni. Quando nel 1744 il Beato venne esonerato dal magistero dei novizi, in Piemonte infieriva la guerra contro la Francia e con la guerra anche la pestilenza. Il re di Sardegna Carlo Emanuele III volle i cappuccini come cappellani militari e il p. Ignazio senza esitare corse ad Asti, Alessandria, Vinovo, dovunque il campo di battaglia faceva spostare l'ospedale militare. Per due anni circa l'ex-maestro di alta ascesi divenne il buon samaritano intento a consolare, a curare le piaghe dei feriti.
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Diversi confratelli caddero vittime delle epidemie. Nel 1746 la battaglia contro i nemici e contro la peste era terminata e il p. Ignazio tornava al Monte dei cappuccini che sarà, nell'ultimo venticinquennio della vita, il quartiere della sua milizia serafica e pacifica, dove farà collimare l'eroismo di tutte le virtù con la prodigiosa efficacia delle sue benedizioni. I poveri e gli ammalati di Torino conobbero presto il cuore immenso del cappuccino, che si aggirava spesso per le vie della città e a lui ricorrevano senza timore d'importunarlo; sapevano che non temeva di bussare alle porte dei ricchi, che anzi le sue grandi benemerenze non gli facevano stendere la mano invano e i nobili si facevano un vanto di collaborare con il padre come ministri della divina Provvidenza. Così il povero cappuccino del Monte, affratellatosi ai poveri, tenne viva in Torino quella tradizione di carità e di beneficenza. La carità non è di solo pane. Le benedizioni portate dal padre agli infermi nelle soffitte o richieste al Monte da processioni gemebonde o di lassù inviate, col suono dell'Angelus di mezzodì, portavano, fra i doloranti, effetti prodigiosi di guarigioni istantanee.
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Per oltre vent'anni il beato fu anche il confessore più ricercato come efficace medico dei traviati. "Cacciatore di birbe "era stato battezzato dal marchese Roero di Cortanze che lo frequentava; da altri addirittura "rifugio dei birbanti"; ma si sapeva che cadere nelle sue reti equivaleva cadere nelle braccia della misericordia di Dio! Prelati eminenti, come il card. Carlo Vittorio Amedeo delle Lanze, o l'arciv. di Torino Giovanni Battista Roero lo onoravano della loro ammirazione e devozione, ma egli preferiva la compagnia degli umili e dei poveri. Frammisti ai "birbanti "entravano pure nel "garibotto" - lo stanzino dove il padre confessava solo gli uomini - anche le anime più privilegiate: sacerdoti, religiosi e specialmente i confratelli del Monte. I frutti erano noti a tutti. Al Monte si ripeteva senza esitazione: "Chi vuol essere ben servito, vada dai penitenti del padre Ignazio".
Il beato passò gli ultimi due anni (1768-70) nell'infermeria del suo convento, continuando a benedire, a confessare, a consigliare quanti a lui ricorsero. La sua vita appariva ormai assorbita e trasformata in quel Crocifisso che egli non sapeva allontanare dal suo sguardo. Nel penultimo mese di vita (agosto 1770) fu sorpreso nella cappella dell'infermeria ritto dinnanzi al crocifisso dell'altare, con le braccia stese in croce, immobile, il corpo sollevato da terra. Non era la prima volta che si costatava come l'intimo ininterrotto colloquio con Dio talmente lo estraniasse da costringere confratelli e novizi a scuoterlo parecchio per farsi udire.
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Frutto di questa sua conversazione celeste e caratteristica della sua vita penitenziale fu la continua gioia che gli cantava nell'animo e sprizzava dal sorriso Quanti lo osservavano furono costretti a confessare: "Ma questo frate ha la gioia del paradiso in faccia!". Di questa gioia fu infiorata tutta la sua vita: e non possiamo dire "nonostante le penitenze della sua vita cappuccina in pieno regime", ma appunto in consegnenza e in proporzione delle sue penitenze - così osservarono e testimoniarono i confratelli - andava aumentando la sua gioia sovrumana. "Questa valle di lacrime - dice il suo ex novizio padre Giacinto da Pinerolo - parevagli trasformata in un giardino di delizie, e ciò perché volentieri pativa per chi tanto amava". Questa gioia, vero frutto dello spirito, era la genuina perfetta letizia francescana che il beato non cessò mai di inculcare anche nei tipi più lacrimosi o negli animi più scrupolosi: "laetari et benefacere - andava canterellando a questi tali - e lascia cantar le passere!".
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L'agonia lo colse raggiante. "Padre guardiano, si legge di certi santi che di fronte alla morte tremarono; io, invece mi sento tanto tranquillo al punto che temo di confidare troppo; mi faccia la carità di un suo consiglio!". La voce rassicurante di chi faceva le veci di Dio lo tranquillizzò. Suonava la mezzanotte del 22 settembre 1770, all'invito del superiore: "Partiti, anima cristiana... Amen", il padre Ignazio, come rispondendo all'appello per ricevere un'ambita onorificenza, compiva il suo ultimo viaggio.
La fama della sua santità e i numerosi prodigi attribuiti alla sua intercessione fecero presto avviare il processo di canonizzazione. Dopo la causa ordinaria, nel 1782 fu introdotto il processo apostolico. Il 19 marzo 1827 Leone XII ne proclamava l'eroicità delle virtù e il 17 aprile 1966 Paolo VI procedeva alla solenne beatificazione.
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Pasquale da Bra
Il 2 dicembre 2016, il Santo Padre Francesco ha firmato il decreto di venerabilità che sancisce che questo figlio di san Francesco d'Assisi ha vissuto in grado eroico le virtù teologali e cardinali. Si tratta del primo gradino del riconoscimento ufficiale, da parte della Chiesa, del cammino virtuoso del Cappuccino.
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Chi era Guglielmo Massaia?
Il Servo di Dio, penultimo di otto figli, nacque nell'Astigiano, la terra di Giovanni Bosco, 1'8 giugno 1809. Nello stesso giorno fu battezzato con i nomi di Lorenzo Antonio. I suoi genitori erano agricoltori modesti e religiosi. Trascorse la fanciullezza in famiglia, per passare poi sotto la guida del fratello primogenito Guglielmo che era parroco del duomo d'Asti.
Compiuti gli studi superiori nel Collegio Reale di questa città come seminarista, per attuare l'ideale missionario entrò nell'Ordine dei Cappuccini, dei quali vestì il saio il 6 settembre 1826, assumendo il nome del fratello maggiore: Guglielmo. Dopo gli sudi filosofici e teologici (1827-1833), fu ordinato sacerdote a Vercelli il 16 giugno 1832. Dapprima cappellano ospedaliere, dove ebbe modo di apprendere nozioni elementari di medicina di cui farà tesoro in Africa; insegnò poi filosofia e teologia dal 1836 al 1846. Nel 1844 fu pure chiamato a collaborare in qualità di consigliere del ministro provinciale del Piemonte.
Questi incarichi lo misero in contatto con la corte di Savoia, con diplomatici, medici, letterati e membri insigni del clero piemontese. In particolare fu confessore e consigliere del Cottolengo, della marchesa di Barolo, di Silvio Pellico e del futuro re d'Italia, Vittorio Emanuele II.
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L'anno 1846 fu determinante per l'evangelizzazione dell'Etiopia. Dopo il fallimento delle missioni gesuitiche, francescane e cappuccine dei secoli XVI e XVII, nonostante l'erezione della prefettura dell'Abissinia al nord, capeggiata dal santo vincenziano Giustino De Jacobis (10 05 1839), l'Etiopia mancava di una gerarchia cattolica.
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Il felice intuito di Gregorio XVI riuscì a concretizzare il progetto missionario. Accolto il suggerimento epistolare dell'esploratore francese Antonio d'Abbadie giunto da Quarata, sulla riva del lago Tana (9 marzo 1845), affidò il ventesimo territorio dei Galla, nel sud dell'Etiopia, all'Ordine dei Cappuccini. Con il breve del 4 maggio 1846 lo eresse in vicariato apostolico e nominò il Massaja, su indicazione di padre Venanzio da Torino, ministro generale dell'Ordine dei Cappuccini, vescovo titolare di Cassia in partibus infidelium e primo vicario apostolico dei Galla. Il 24 maggio successivo, il prefetto della Congregazione di Propaganda Fide, gli conferiva a Roma la pienezza del sacerdozio.
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Da questo momento ebbe inizio una delle pagine più avventurose della vita del Massaia. Lasciò l'Italia il 4 giugno 1846, riuscendo a raggiungere la sua missione solo cinque anni dopo, il 21 novembre 1852, a prezzo di sofferenze e peripezie inaudite, procurategli in particolare dal metropolita copto dell'Etiopia, l'Abuna Salama III che scomunicandolo lo chiamò con nome profetico Abuna Messias.
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Otto traversate del Mare Mediterraneo, dodici del Mare Rosso, quattro pellegrinaggi in Terra Santa, quattro assalti all'acròcoro (altipiano etiopico), dal Mare Rosso, dal Golfo Arabico e dal Sudan; quattro esili, altrettante prigionie e ben diciotto rischi di morte costituiscono il bilancio della sua epopea missionaria.
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Dopo ripetuti tentativi di penetrazione, l'attività del vescovo si articolò in periodi ben definiti: la Missione dei Galla propriamente detta (1852-1863), comprendente le fondazioni di Assandabo, nel Gudrù (1852), dell'Ennerea (1854), del Caffa e Lagamara (1855) e del Ghera (1859); la permanenza in Europa (1864-1867) per riorganizzare i quadri missionari, comporre i catechismi galla e caffino, pubblicare la prima grammatica della lingua galla - allora soltanto parlata - e fondare il Collegio Galla San Michele a Marsiglia per i giovani aspiranti al sacerdozio (15 aprile 1866); la Missione dello Scioa, dove il re Menelik II lo trattenne come suo consigliere e vi fondò, nel 1868, le importanti stazioni missionarie di Fekerié-Ghemb e di Finfìnrù poi elevata a capitale dell'Etiopia moderna nel 1889 con il nome di Addis Abeba.
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L'esilio, decretato, il 3 ottobre 1879, dal Negus-neghesti (imperatore) Joannes IV, vincitore di Menelik, troncò definitivamente l'attività benefica del Servo di Dio, costringendolo alle dimissioni da vicario apostolico dei Galla che scrisse a Smirne il 23 maggio 1880, vigilia dell'anniversario della sua consacrazione episcopale.
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Dopo aver trascorso gran parte del 1880 in Egitto, in Medio Oriente e in Francia, l'esule missionario decise di recarsi nel convento di Bastia in Corsica per "pensare un po' a me stesso", e "per sfuggire gli onori che gli si preparavano in Italia in vista dei suoi meriti" . Lasciò Bastia il 14 novembre 1881e da lì si stabilì a Roma per volere dello stesso pontefice Leone XIII che lo indusse a scrivere i ricordi africani, promuovendolo arcivescovo e elevandolo nel 1884 al rango di cardinale.
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Il Massaia visse l'ultimo decennio dividendo la sua dimora tra la Curia generale dell'Ordine dei Cappuccini, il Collegio Urbaniano di Propaganda Fide e il convento dei Cappuccini a Frascati, dove edificò confratelli e visitatori illustri per l'estrema povertà.
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All'inizio dell'agosto 1889 si recò a Villa Amirante in San Giorgio a Cremano per un po' di riposo. Il 6 agosto, festa della Trasfigurazione, venne stroncato da una crisi cardiaca. Alla notizia della morte il Santo Padre Leone XIII esclamò: «È morto un santo».
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La salma fu subito circondata dalla venerazione di autorità e del popolo che gli era caro e che, nonostante le precauzioni, riuscì a sforbiciargli la tonaca fino al ginocchio e a sottrargli il cordone. Le esequie ebbero luogo nella chiesa degli Alcantarini del Granatello, officiate dal cardinale arcivescovo di Napoli. Il 7 agosto la salma, deposta in triplice bara fu portata a Roma su una vettura ferroviaria pavesata a lutto. Il 9 agosto si celebrò un solenne funerale nella chiesa di Sant'Andrea delle Fratte a Roma. Il corpo venne tumulato nella cappella della Congregazione di Propaganda Fide al Verano e, per suo esplicito volere, traslato l'11 giugno 1890 a Frascati, nella chiesa dei Cappuccini, dove tuttora riposa. Qui volle essere sepolto, perché la quiete dei morti non è disturbata dal rumore del mondo, né la santità dei sepolcri è profanata dal lusso dei moderni cimiteri. La fama di santità già presente in vita per la sua indomita attività apostolica e missionaria, si manifestò dopo la sua morte e portò a promuovere nel 1914 il processo canonico.
Dice qualcosa alla nostra vita oggi questo frate cappuccino?
Il cardinale Guglielmo Massaia è certamente uno dei missionari più significativi della Chiesa, considerato dalla storiografia missionaria il maggior evangelizzatore del XIX secolo, attuale nell'esempio e nel messaggio evangelico anche per le condizioni ambientali in cui lavorò, per le peripezie dei suoi interminabili viaggi, per la tempra del suo carattere e per quella qualità organizzativa che gli fece intuire e realizzare una presenza della Chiesa primitiva ma proprio per questo degna dei tempi apostolici per semplicità, essenzialità, nitidezza e aderenza all'indole delle tribù evangelizzate.
Le note caratteristiche della sua attività missionaria, si possono così sintetizzare: evangelizzazione, promozione umana, santità. È quanto viene chiesto oggi ad ogni missionario. Accanto a queste note essenziali nella sua attività erano presenti pure la collaborazione, l'inculturazione, la flessibilità e l'apertura.
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Aperto a tutti i problemi dell'evangelizzazione, il Cappuccino non limitò la sua attività ai Galla della propria giurisdizione: favorì pure, con suggerimenti e interventi personali efficaci, le missioni confinanti. Riuscì a superare sbarramenti giuridico-disciplinari e si aprì, faticosamente, pagando di persona, le strade della pastorale moderna che noi percorriamo agevolmente.
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Per secoli la Chiesa istituzionale esportò, particolarmente in terra di missione, prodotti europei e lo stesso Servo di Dio, nella prima corrispondenza, inneggia alla cosiddetta civiltà occidentale preferendola alle altre. Giunto, dopo oltre sei anni di tentativi audaci e dolorosi nel vicariato apostolico dei Galla, nell'Alta Etiopia, egli avvertì il bisogno di svincolarsi da ogni tentazione europeistica.
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Come apostolo di Cristo rifiutò categoricamente di mischiare politica e religione. "ll mio sentimento e la mia convinzione - scrive - fu sempre contraria al sistema di confidare nel favore dei principi, come elemento troppo fragile e troppo misto di passioni per servire di base a un'operazione religiosa, la quale di sua natura deve discendere dall'alto".
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Uomo semplice come l'acqua, fece una vita santa. Pieno di carità operativa e che non si risparmiava perché il fratello non soffrisse; provvido padre con tutte le qualità che si possono desiderare.
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Un missionario che per anni visse con un pugno di ceci, all'uso degli eremiti abissini e che, poco prima di morire, poté scrivere che:” tutto il sud dell'Etiopia ha sentito la parola di Dio, con cristiani sparsi ovunque; il resto, poi, giudicherà Dio; per noi cui basta la sua volontà”.
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Un santo vecchio incurvato più dalle fatiche, dagli stenti, dalle privazioni, dai dispiaceri che non dagli anni, che diventa esempio di una evangelizzazione scevra da interessi umani, puramente dedita al bene delle anime.
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Matteo Pittavino nasce a None (Torino) il 28 maggio 1875.
A quindici anni per non contrastare il padre entrò nel seminario diocesano e non tra i cappuccini come era suo desiderio. Solamente alla morte del padre poté entrare tra i cappuccini. Era il 2 ottobre 1892. Per 15 anni fu professore di teologia.
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Finalemnte nel 1914 poté partire missionario come era suo desiderio. Dal 1914 al 1937 fu in eritrea e dal 1937 al 1943, quando con altri missionari fu espulso, fu in Etiopia.
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Moriva a Bra il 15 gennaio 1953. I processi diocesani informativi si svolsero tra il 1966 e il 1976 a Torino e Asmara. Negli anni 1982-1983 a Torino si svolse il processo sulle virtù.
Nel 1987 fu consegnata la Positio e il 7 marzo 1992 è stato emesso il Decreto sull’eroicità delle virtù
Pierina Betrone (al Battesimo, Pierina Lorenzina Giovanna) nasce a Saluzzo, in provincia di Cuneo e diocesi di Saluzzo, il 6 aprile 1903. È la seconda delle sei figlie nate dal secondo matrimonio di Pietro Betrone con Giuseppina Nirino. A tredici anni sente erompere dal suo cuore un grido: “Mio Dio, ti amo!”.
Cerca a lungo il modo di rispondere a quell’amore, prima tra le Figlie di Maria Ausiliatrice, poi tra le suore del Cottolengo, uscendo in entrambi i casi prima della professione dei voti. Viene infine indirizzata al monastero delle Clarisse Cappuccine di Torino–Borgo Po, dove entra il 17 aprile 1929; prende il nome di suor Maria Consolata, in onore del titolo con cui la Vergine è venerata come patrona di Torino. Certa di sentire la voce di Gesù che la chiama a un incessante atto d’amore, lo concretizza sia nella giaculatoria «Gesù, Maria, vi amo: salvate anime» sia negli umili servizi che svolge. Padre Lorenzo Sales, Missionario della Consolata, diventa suo direttore spirituale nel 1935. Suor Maria Consolata si trasferisce il 22 luglio 1939 nel monastero del Sacro Cuore a Moncalieri, di nuova fondazione. Consumata dagli stenti dovuti alla guerra e dal desiderio d’immolazione per le anime più travagliate, viene ricoverata in sanatorio nel novembre 1945, ma il 3 luglio 1946 è riportata a Moriondo, dove muore quindici giorni più tardi, quarantatreenne. Il 6 aprile 2019 papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui suor Maria Consolata, i resti della quale riposano dal 17 aprile 1958 nel monastero del Sacro Cuore a Moncalieri, è stata dichiarata Venerabile.
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Airasca, presso Torino, un giorno del 1916. Una ragazza di 13 anni si affretta a sbrigare le commissioni affidatele dalla mamma. A un tratto, le sale alle labbra, con un’intensità mai provata, un’invocazione: “Mio Dio, ti amo”. Sperimenta una grande gioia.
Si chiama Pierina Betrone ed è nata a Saluzzo (CN), il 6 aprile 1903, figlia di un panettiere, Pietro, e di Giuseppina Nirino. Ad Airasca, dove si sono trasferiti, i suoi ora gestiscono una trattoria. Nel 1917, si stabiliscono a Torino dove si occupano di un negozio di pasta e granaglie. Un ambiente molto concreto, impastato di lavoro e di buon senso.
Pierina cresce con tanta voglia di pregare, di studiare e di lavorare, di far del bene al prossimo. Entra nella “Compagnia delle Figlie di Maria”, la benemerita associazione presente nelle parrocchie che ha educato cristianamente tante ragazze, coltiva progetti di amicizia con Gesù e di apostolato. Si affida alla Madonna nello spirito della “santa schiavitù d’amore” di San Luigi de Montfort, affinché la sua vita, nelle mani di Maria, possa essere davvero tutta un dono.
È piuttosto dotata, bella e gentile. Dopo le elementari, continua, come può, gli studi – le scuole magistrali festive – alternandoli al lavoro nel negozio: sa di latino e di francese, di pittura... e scrive molto bene.
L’8 dicembre 1916, festa dell’Immacolata, dopo la Comunione eucaristica, sente per la prima volta Gesù che la chiama: “Vuoi essere tutta mia?”. Risponde: “Gesù, sì”.